Cannabis e mercato: rapporti falsati o rivoluzioni culturali?

Soft Secrets
08 Aug 2018
Da cittadini a consumatori. Cosa succede se un simbolo anti-establishment come la cannabis viene normalizzato all'interno delle dinamiche di mercato? È davvero solo una questione di sensibilizzazione dell'opinione pubblica? Oppure il rischio è di vedere trasformati i diritti in merce acquistabile? Moltissime domande, poche purtroppo le risposte. Chiunque bazzichi il mondo della cannabis non può non avere la chiara e netta sensazione che il consumo, nel corso degli ultimi 15-20 anni, si sia instradato verso una netta assimilazione alle leggi che regolano il mercato dei prodotti di ampia diffusione. Una parabola magari lenta ma inesorabile verso una normalizzazione del prodotto: non più sostanza proibita ma prodotto di consumo alla stregua di jeans o libri. A guardare il nostro paese poi, l'inversione di rotta è stata di 180 gradi rispetto solo ad un lustro fa, quando la Fini-Giovanardi accostava ancora la cannabis a sostanze ben più pesanti. È innegabile che di cannabis si parli adesso con ben altri toni, che la si dipinga a tinte più positive, che le cronache la associno sempre più ad un'idea di sviluppo. Queste stesse cronache, nel tempo, hanno infatti dimostrato come a nulla siano valsi gli sforzi degli Stati che hanno cercato di terrorizzare il consumatore di cannabis o chi vi si approcciava da neofita. Ci hanno provato perpetrando false teorie scientifiche come la teoria del 16% o quella del passaggio - secondo cui il consumo di cannabis porta inevitabilmente alla dipendenza di droghe ben più pesanti. Ci hanno provato diffondendo paure sociali ed emarginando i consumatori, relegati pubblicamente, quando va bene al ruolo di "fattoni" senza la minima speranza di avere il controllo della propria vita, quando va male a quello di criminali da tenere in custodia cautelare. Cannabis e mercato: rapporti falsati o rivoluzioni culturali? Gli Stati Uniti, padri putativi dei modelli proibizionisti, prima di capitolare avviando una progressiva legalizzazione, in primis terapeutica e successivamente per scopi ricreativi, hanno creduto che il terrorismo psicologico e una repressione poliziesca e giudiziaria degna di ben altre battaglie, fosse l’unico modo per arginare la diffusione tra la popolazione, soprattutto quella più giovane. Per oltre 70 anni hanno letteralmente perseguitato determinate categorie sociali - persone di colore, latinos, low incomers e universitari – ma hanno dovuto finalmente ricredersi davanti ai numeri degli studi che li mettevano sempre sul podio dei paesi con il maggior numero di consumatori in termini relativi. Certo ora sono venuti a più miti consigli ma per un lasso di tempo straordinariamente lungo, gli Stati Uniti non avevano fatto i conti con i modelli economici di cui sono da sempre i più fieri ed orgogliosi testimonial. Parliamo di quel capitalismo aggressivo ed amorale che venne (e viene tutt'ora) proposto quale unico argine a forme più o meno occulte di socialismo o di comunismo travestito da statalismo. È stato proprio il capitale a fare infine carta straccia dei gran capisaldi morali di quanti predicano ed auspicano una società senza droghe, ed a maggiore ragione senza cannabis. Ci è riuscito con le sue forme subliminali di promozione di benessere diffuso, grazie all'imposizione di bisogni non certo impellenti e con la diffusione di un individualismo sfrenato, quale modello preferibile all'ancestrale solidarietà che caratterizza (o dovrebbe caratterizzare) la specie umana. Nella nostra Italia, paese che - è risaputo - adora importare i costumi americani (anche se con circa venti anni di ritardo), la possibilità di vedere legalizzata la cannabis "all'americana" deve essere ovviamente parsa troppo ardita e precoce, soprattutto dinanzi ad un elettorato da reparto geriatrico. Eppure la fetta di mercato è decisamente ghiotta e i bilanci pubblicati oltre oceano lo hanno confermato. Cosa fare allora per creare l'italianissima situazione della botte piena e della moglie ubriaca? Essendo noi italiani maestri nell'affrontare un argomento con mille distinguo ed essendo storicamente portati all'ipocrisia istituzionale, si è pensato, con un certo successo, di sfruttare l'aggiornamento di una legge agricola per introdurre sul mercato la cosiddetta "cannabis light", una cannabis a bassissimo principio attivo. Il fine ufficiale? Stando a quanto pontificato dagli entusiasti della light, è quello di mantenere alta l’attenzione dei cittadini rispetto a quello che, quando e se accadrà, ci sembrerà essere un passaggio epocale: la legalizzazione vera di una sostanza il cui principio attivo, anche quando in percentuali elevate, produce un'alterazione in ogni caso minore di una sbornia. Quindi vai con la cannabis light, venduta più o meno liberamente da una variegata tipologia di attività commerciali ma con un riscontro al dettaglio ottimo. La richiesta, anche grazie all'enorme pubblicità guadagnata da EasyJoint, è alta. Il nuovo e ruggente business della cannabis light ha creato posti di lavoro e conseguenti introiti, il che non è assolutamente un male per un paese che è osservato con occhio angosciato dai mercati di mezzo mondo e di tutta Europa. Il valore dato dai consumatori al prodotto è invece eterogeneo: c'è chi la vede come un sostituto più salutare del tabacco, chi la cerca in quanto non meglio precisata cannabis "ricca di CBD", chi la chiama "paglione" e chi la considera invece alla stessa stregua della "sorella con il THC". Percentuali di THC non superiori allo 0,6% non possono alterare in alcun modo e gli effetti medicali dell'erba legale italiana sono ancora tuti da chiarire. Quindi, a rigor di logica, i motivi per acquistarla sarebbero dovuti venire meno: solitamente ci si fa una canna per rilassarsi o per meditare, o la si usa all'interno di un ciclo di terapie. La cannabis light attualmente in commercio nella penisola non risponde a nessuno degli usi "ordinari" sopracitati: cosa dobbiamo desumere allora? Cannabis e mercato: rapporti falsati o rivoluzioni culturali? Se vogliamo prendere per buono quanto più volte affermato dal guru della light Luca Marola, EasyJoint e le varie realtà che sono nate dalla legge 242/2016 sulla canapa industriale hanno semplicemente avviato un'azione di marketing tesa a tenere alta l’attenzione per la sorella maggiore, la cannabis con THC. E c'è una buona dose di verità in ciò perché, in ultimo, il consumo di cannabis oggi risponde in tutto e per tutto alle regole del mercato. Il tabù è caduto definitivamente, la cannabis è assurta all'olimpo del mainstream e ad oggi, anno domini 2018, per buonissima parte dell'opinione pubblica non esiste nessuna differenza tra comprare un barattolo di pelati o uno di Futura75. L'elemento trasgressivo è caduto e non vi è quasi più nessuna considerazione moralistica rispetto all’acquirente, ai suoi gusti, alle sue abitudini. A noi giornalisti cannabici piace pensare, narcisisticamente, che il merito di questo cambiamento socio-culturale sia anche nostro ma la ben più dura realtà è che quell’acquirente non è più un cittadino alternativo o un individuo da mettere sotto chiave, ma è diventato un semplice consumatore di oggetti, merce, cibo, viaggi e servizi a cui da poco si è aggiunta anche una sostanza il cui solo nome ed il relativo consumo, fino a solo 4 anni fa, ti connotava in termini stigmatizzanti, etichettandoti come deviante o criminale. Da cittadini a consumatori: il termine cittadino diventa dunque secondario essendo l’appellativo di consumatore molto più qualificante per chi vende un prodotto. Niente di nuovo in realtà, lo abbiamo già visto con i tatuaggi. Si tratta di una variante della tanto deprecata appropriazione culturale, un processo grazie a cui il modello capitalistico è riuscito a trasformare in prodotti appetibili e vincenti, cose che fino agli anni 70 appartenevano a gruppi e culture considerate devianti. Il valore identitario di tatuaggi e cannabis, un tempo, ti relegava ai margini della società e ti etichettava come un perdente o comunque appartenente a sub culture marginali e marginalizzate. Chi può negare che il tatuaggio oggi sia tranquillamente sfoggiato dall'élite e dalle categorie incluse e attive nei processi economici occidentali? Analogo ragionamento lo si può applicare alla cannabis, oggi non ancora sdoganata ma, temporaneamente, sostituita da una merce in qualche modo surrogata. Ancora un po' di tempo ed anche la cannabis, oggi garanzia di condanne penali, diventerà oggetto di consumo portando a termine un percorso per cui il fumatore ludico sarà la figura più lontana dalle affermazioni di giovanardiana memoria. A loro si contrapporranno i vincenti, nella vita e nel lavoro: consumare cannabis sarà considerata una conditio sine qua non per appartenere alla fetta desiderabile della società. In una conferma particolare di quanto previsto in generale dal sociologo Marshall McLuhan, quando affermava che il "medium è il messaggio", la trasformazione della cannabis andrà di pari passo alla trasformazione antropologica delle nostre società: perdente sarà chi non consuma, non acquista, non partecipa al rito collettivo della inclusione sociale tramite acquisto online. La povertà, o il rifiuto di partecipare al rito orgiastico dello shopping, risulteranno gli indicatori di persone ai margini e fondamentalmente escluse dal tessuto sociale. Arrivati a questo punto, è ben poca cosa che sia una pianta considerata fino a pochi anni fa merce da drogati senza alcuna speranza di farsi strada nella vita. L’importante è che si venda: anche se ha perso il suo significato originario sia in termini di ritualità e liturgie nell’uso, sia in termini di ribellione ad un sistema preconfezionato quale componente socio culturale, che ne legittimava in primis la coltivazione e poi il fumarsela. Siamo quindi diventati davvero tutti dei consumatori, dei voraci predatori di merci di cui abbiamo smarrito il fine originario? A tal punto voraci da comprare una sostanza priva delle componenti che da sempre ne giustificavano l’acquisto e il consumo? La tendenza in Italia pare voler propendere verso questa ipotesi. Giovanna Dark
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